Il coraggio del clown

di Matteo Gentile

Ci piace pensare che il clima gelido di questo primo scorcio di 2017, se non altro, favorisca la lettura di un libro o di una rivista online come la nostra, oppure la visione di un film, di una serie tv o della trasmissione televisiva preferiti. Lasciando da parte preoccupazione e pensieri non molto positivi legati al gelo e al ghiaccio, cerchiamo di evocare belle sensazioni e scenari più “caldi” attraverso una “chiacchierata” colloquiale con un artista della nostra terra che si fa conoscere in giro per l’Italia, l’Europa e anche un po’ più in là con la sua musica che nasce da uno strumento apparentemente difficile: il contrabbasso. Camillo Pace, classe 1978 (si può dire, si può dire) ci raggiunge al tavolino del bar con la sua tipica andatura che un po’ tutti quelli che lo seguono hanno imparato a conoscere nei video con cui promuove e accompagna i suoi brani musicali, quelli cosiddetti pop. Il pretesto per questa “intervista” è l’imminente uscita del suo nuovo album, nove tracce inedite, tante nuove storie raccontate mediante un viaggio attraverso vari generi musicali che si intrecciano e si fondono in uno stile personale e maturo. In realtà, attraverso Saturno22 vogliamo conoscere meglio un talento della nostra terra apparentemente un po’ schivo nella vita privata ma in realtà molto “aperto” dal punto di vista artistico e musicale. Lo ringraziamo del tempo che ci dedica, e lui ringrazia noi e i nostri lettori per il tempo che vorremo dedicargli per leggere queste righe.

Camillo, prima di parlare del tuo nuovo lavoro, c’è una curiosità che vogliamo soddisfare, in realtà un interesse nei confronti della scelta del tuo mondo musicale. Cominciamo (quasi) dal principio. Ti sei diplomato in contrabbasso al Conservatorio “N. Rota” di Monopoli e poi laureato in discipline jazz presso il “Piccinni” di Bari. Ma come fa un ragazzo a decidere di studiare proprio il contrabbasso, e non la batteria, la chitarra o il pianoforte, tanto per citare gli strumenti più “popolari”?

“In effetti il contrabbasso è uno strumento ostico, molto complicato, “cattivo” nel senso che non è uno strumento semplice. A me l’interesse per la musica è nata prima nei confronti del basso elettrico. Andavo a lezione da Franco Speciale e poi ho continuato con i primi gruppetti a suonare seguendo le prime passioni per i Pink Floyd, i Led Zeppelin e i vari gruppi che ci piacevano a metà degli anni ’90. Da lì, volevo iscrivermi al conservatorio per dare spessore ai miei studi. Il basso elettrico, però, all’epoca non era presente in conservatorio e Franco mi consigliò di verificare se ci fosse uno strumento che gli assomigliasse. In qualche modo, il più affine mi sembrava proprio il contrabbasso, sia a livello di scala che a livello di posizioni. Inoltre, sostanzialmente, mi sono sempre piaciute le sonorità gravi e ritmiche. Diciamo che il basso è la base di un gruppo, lo strumento che in realtà scandisce le pulsioni ritmiche all’interno di un brano e detta i tempi di entrata di tutti gli altri strumenti, anche della voce. In questo senso il contrabbasso è molto simile al basso, e così ho fatto il primo anno di conservatorio, mi è piaciuto, e adesso eccomi qua”.

Bene, una scelta apparentemente casuale ma in realtà legata a esigenze musicali ben precise. Ma vediamo adesso al tuo ormai imminente nascituro. Possiamo conoscere titolo, copertina e tema delle tracce del tuo nuovo album?

“Il titolo è “Credo nei racconti” e sulla copertina ci sono io da bambino in una specie di collage dove ci sono tre mie fotografie in una delle quali sono con mio fratello maggiore che mi racconta qualcosa. E’ un disco che ha avuto un percorso lungo, ci ho impiegato quasi due anni a scriverlo e registrarlo. Questo perché io sono principalmente un contrabbassista, e come tale sono coinvolto in parecchi progetti musicali che mi hanno portato via molto tempo, e ne sono contento ovviamente. Ma questo non mi lasciava molto spazio per concentrarmi sulla scrittura e lavorare sui miei brani. Comunque, alla fine ho scritto e registrato queste nove tracce”

Perché proprio nove? Di solito gli album contengono dodici, tredici o anche quattordici tracce.

“Perché mi piace il numero nove. Ma anche perché adoro cercare di mettere il minimo all’interno del mio disco. Mi piace lavorare con poche tracce e amo moltissimo i silenzi che si vanno a creare all’interno. E mi piace il fatto che alla fine del nono brano chi ascolta possa ancora ricordarsi del primo, cosa che purtroppo, secondo me, non succede quando i brani sono in numero maggiore. Per quanto mi riguarda nove è il numero ideale. Nello specifico, sono nove storie”.

Ce n’è una in particolare di cui vogliamo parlare in anteprima?

“Diciamo che una già conosciuta è nel pezzo “Si addormenta e vola”, un brano che ho fatto con Vincenzo Deluci, un trombettista che a causa di un incidente stradale è su di una sedia a rotelle e continua a fare ottima musica. Ho creato la storia su di lui, cercando di immedesimarmi nel suo mondo, prendendo lo spunto proprio dai suoi racconti, dalle sue sensazioni e provando a metterle in musica. Tra l’altro Vincenzo, che voglio salutare, partecipa al brano con la sua tromba, che in realtà è uno strumento molto particolare realizzato per lui dall’associazione “Accordiabili” di Fasano, e saluto anche loro. Si tratta di un’associazione che costruisce strumenti per disabili: fanno dei lavori fantastici. Adesso hanno appena costruito un clarinetto per un ragazzo sardo disabile e stanno costruendo una batteria per una altro ragazzo. L’idea del progetto è proprio quella di costruire degli strumenti che mettano in condizione di esprimersi attraverso la musica molti ragazzi che, altrimenti, a causa della loro disabilità, non potrebbero farlo con quelli tradizionali”.

Scopriremo insieme le altre storie a fine mese. Il disco sarà accompagnato dall’uscita di un video, visto che tu lavori molto anche attraverso questo tipo di racconto visivo e musicale?

“In realtà ho in mente di realizzare il video dopo l’uscita del disco. E sì, mi piace molto raccontare anche con immagini sensazioni e pensieri che scaturiscono da un racconto musicale”.

Tra i diversi video che hai realizzato, ce n’è uno molto particolare. Si tratta di “E adesso”, tratto da alcuni scritti di don Tonino Bello, nel quale hai inserito diversi personaggi della città di Martina Franca, dal panettiere, al pizzaiolo, al medico, al parroco, e tanti altri. Com’é nata questa idea?

“Sì, per scrivere il testo del brano ho preso spunto dai discorsi che don Tonino Bello rivolgeva soprattutto ai ragazzi. Nel testo si parla molto dello stare insieme, quindi la mia idea era quella di poter creare un’unione tra tutte queste persone, senza alcuna differenza tra artigiani, operai, professionisti, medici e vari tipi di attività e mestieri. L’idea di fondo è quella di unirsi tutti per cercare insieme di dar vita a qualcosa di bello”.

Questo concetto di unire insieme realtà apparentemente differenti lo troviamo, di fatto, anche nella tua discografia. Vediamo che hai suonato in lavori di musica classica e barocca, ma anche musica jazz, etnica e pop, canzoni incluse. Si tratta di una tua esigenza di guardare il mondo musicale attraverso varie prospettive o è soltanto un’opportunità?

“Inizialmente si è trattato di un’opportunità, perché uscendo dal conservatorio ho iniziato a studiare musica classica e quindi ho suonato in varie orchestre. Ho anche iniziato a collaborare con diversi gruppi di rock e generi vari. Però sono stato io a volermi buttare “a testa bassa” nei vari progetti perché sono sempre stato molto curioso dei generi musicali. Adesso suono anche nella band di un’artista reggae, per esempio, Mama Marjas, che mi mancava … Mi piaceva vedere che il mio strumento, il contrabbasso, potesse affrontare tutti i generi, e io stesso potessi imparare nuove sonorità e nuovi ritmi. Infatti nel mio nuovo disco c’è un po’ di tutto, spazio dal jazz al pop al reggae, appunto, al classico. Perché mi piace poter prendere spunto da diverse situazioni, cercare di farle mie per poi far nascere un qualcosa che sia una unione di tutti questi generi. Per dire, ho anche fatto un’incursione nella musica techno. Ho iniziato a suonare il basso elettrico in un pub e in una discoteca di Martina. C’era un dj che metteva musica house e io l’accompagnavo con il mio basso elettrico”.

Tra tutti questi generi, ce n’è uno in particolare legato proprio ai tuoi studi: la musica etnica africana. Hai studiato in Kenya e in Sudafrica per realizzare la tua tesi proprio sulla musica tradizionale africana. Perché proprio l’Africa?

“Io sono partito per l’Africa perché un padre missionario della Consolata mi propose di accompagnarlo in occasione del suo trasferimento in una missione in Kenya. Accettai volentieri. Dovevo stare lì qualche settimana, poi ci sono rimasto due mesi”.

E ti sei ammalato di mal d’Africa …

“Sono tutt’ora ammalato di mal d’Africa. Quei due mesi mi hanno cambiato la vita, ed è cambiato il mio modo di vedere il mondo e anche la mia musica”.

Qual è l’aspetto che più ti ha colpito di questo grande e per certi versi misterioso continente?

“Bè, mi ha molto colpito la naturalezza delle persone e soprattutto il loro modo di vivere sempre col sorriso. Noi occidentali, e mi ci metto anch’io in prima persona, viviamo sempre in questa corsa incredibile verso qualcosa che abbiamo da fare anche se poi, in realtà, non abbiamo da fare nulla in alcuni momenti. Loro sono sempre un po’ più “lenti”, più tranquilli nel fare le cose. Però nonostante i tanti e grandi problemi che hanno, dalla fame alle malattie, alle innumerevoli difficoltà quotidiane, vivono sempre con questa grande felicità. E tutto questo lo vivono a ritmo di musica! La sera, nei villaggi, ci si riuniva attorno al fuoco, si suonavano i tamburi e si cantava sotto le stelle! Una cosa davvero fantastica, ormai impensabile per noi che non riusciamo neanche più a guardare le stelle!”

Ami viaggiare, ti appassioni nel pensare all’Africa, ma la tua casa, però, è qui a Martina Franca.

“Io in effetti non sono mai andato via da Martina Franca, anche se ho sempre cercato di creare degli scambi con le persone con le quali lavoro e collaboro, in altre parti d’Italia e anche d’Europa. In particolare amo vivere soprattutto in campagna, dove di fatto sono cresciuto. Da poco ho anche messo su un piccolo agriturismo dove amo rifugiarmi perché lì trovo una tranquillità estrema”.

E c’è una stanza in particolare che ami più delle altre?

“Certo, c’è una stanza con il camino, i miei strumenti, tutte le mie cose, dove mi piace starmene da solo ad ascoltare e fare musica, con un buon bicchiere di vino, a leggere, scrivere e suonare. Là ho praticamente realizzato il mio ultimo album, in quei momenti in cui chiudo tutto fuori e mi rifugio nella musica e in me stesso”.

A parte i tuoi video su Youtube, non ti si vede molto attivo in rete. Che rapporto hai con i social network?

“In realtà non amo pubblicare fatti o eventi personali come vedo che molti invece fanno. Utilizzo i social e la rete essenzialmente per comunicare un evento o una notizia concreta, tipo adesso che ho comunicato che a breve uscirà il mio album, oppure quando annuncio la messa in rete di un video. Preferisco parlare con la musica per comunicare le mie emozioni”.

E cosa vuol dire per te emozionarti?

“Ho provato delle forti emozioni proprio nei giorni scorsi, quando sono stato ricoverato in ospedale per una broncopolmonite che mi ha fatto passare il Natale in corsia. Ne approfitto, a proposito, per fare un pubblico ringraziamento alla dottoressa Lella e a tutto il personale medico e paramedico del reparto di medicina in cui ho vissuto dei giorni molto intensi dal punto di vista emotivo. Tutte persone davvero preparate dal punto di vista professionale e molto vicine ai pazienti con la loro umanità. Mi sono molto emozionato perché per la prima volta ho vissuto delle cose diverse. Vedevo gente che soffriva e, in particolare, c’era un signore nella mia stanza con cui ho instaurato un bel rapporto di amicizia. Di questo signore la cosa che mi ha emozionato tantissimo è stato vederlo guardare fuori dalla finestra per interi pomeriggi. Non so cosa pensasse, se aspettasse qualcuno o se ricordasse episodi della sua vita o immaginasse cosa avrebbe fatto uscendo. Però mi ha emozionato tantissimo toccare con mano la grande sensibilità di questa persona che si dimostrava sempre disponibile ad aiutare gli altri malati, ad avere una parola di conforto, donare un sorriso o compiere un gesto di aiuto concreto. Così come mi ha molto emozionato passare il giorno di Natale tra questa gente che soffriva, o con i parenti che trepidavano per i loro congiunti ricoverati. Tutta una umanità che mi ha regalato un bagaglio enorme e mi ha insegnato a guardare alla sofferenza con occhi diversi. Tutti noi, io per primo, dovremmo andare più spesso a far visita a persone ammalate, anche per donare un semplice sorriso”.

In base a tutto quello che dici e a tutto quello che fai ci sembra anche superfluo chiederti come mai non appartieni al cosiddetto “star system”, non è tanto una mancanza di opportunità ma piuttosto una tua scelta.

“Sì, guarda, io mi reputo sempre un contrabbassista, colui che vive in un certo senso “dietro le quinte”, che regge la situazione ma non sarà mai la prima donna ma che, se lo togli, il pezzo cade. Mi ricordo un aneddoto accaduto durante una manifestazione del primo maggio. Ero giovanissimo e suonavo il basso elettrico. Si avvicinò un signore e ci disse: “bravi tutti, ragazzi” e poi rivolgendosi a me: “la tua chitarra però era un po’ bassa”. Ecco, questo è un po’ il senso di come spesso il bassista venga visto da chi non conosce bene le dinamiche di un gruppo. Ma non mi lamento, va bene così, è una mia scelta precisa che rispecchia anche il mio modo di approcciarmi al mondo”.
Una scelta, in un certo senso, coraggiosa. Come dice il titolo di un libro attualmente ai primi posti nelle classifiche di vendita, è “il coraggio di essere liberi” delle proprie scelte e della propria vita.
“Effettivamente io mi sento libero, anche se la libertà è un valore che va sempre coltivato. La libertà è un po’ come un campo di terra che ogni giorno devi coltivare, difendere dalle erbe cattive e curare con il duro lavoro perché porti i frutti sperati. In sostanza, la libertà è una conquista continua”.

E quindi, la libertà è anche un viaggio, come quel brano di cui hai realizzato un video, che inizia con un uomo che potrebbe tentare il suicidio ma che, attraverso un viaggio, scopre tutto il mondo che lo circonda.

“Un viaggio attraverso la nostra terra, certo, alla scoperta di tutte le piccole grandi cose che ci circondano e cha fanno la vita un posto meraviglioso dove vivere. Abbiamo girato in tanti posti del territorio tra Valle d’Itria, Murgia e il mare. L’idea era quella di buttar via la depressione, il male di vivere, e di osservare quello che ci circonda. Anche il semplice piatto di orecchiette gustato nel cortile davantia un trullo può essere un momento di felicità. Il gusto delle piccole cose, insomma. Io spesso amo passeggiare nelle campagne proprio per crearmi uno spazio di solitudine in cui riflettere e guardare il mondo sotto un altro punto di vista, più tranquillo e soprattutto più consapevole”.

Quindi hai un buon rapporto con la solitudine.

“Certo, e io penso che sia difficile raggiungerlo. Riuscire a impadronirsi della solitudine e farla propria tanto da renderla bella è un traguardo difficile ma esaltante”.

Così come è difficile raggiungere la felicità?

“La felicità è come un albero, così come per la libertà devi prendertene cura ogni giorno affinché possa diventare secolare. Essere felici non significa non avere problemi o non avere niente per la testa. Al contrario, riuscire a essere felici sopra tutte le difficoltà è una condizione dell’animo bellissima da vivere soprattutto con il sorriso”.

Quando pensi al sorriso pensi agli amici africani e al signore dell’ospedale?

“Non solo. Penso soprattutto alla figura del clown, un personaggio che fa ridere gli altri, i bambini in particolare, rendendoli felici, ma che nasconde un profondo senso di malinconia. Io ho avuto la fortuna di lavorare per due anni, come giurato, all’interno del festival internazionale del circo di Latina. Tra gli spettacoli che ho visto, sono stati i clown a emozionarmi tantissimo. Persone che quando si struccano e tolgono l’abito colorato, diventano spesso malinconici. Ma quando sono in scena danno il meglio di sé, buttano via le difficoltà quotidiane, per quanto grandi possano essere, e regalano momenti indimenticabili di allegria al loro pubblico. In particolare, ho avuto la fortuna di lavorare con Miloud Oukili, un grande clown francese che a Bucarest organizzava spettacoli per le strade e le piazze della città e ha creato la Fundatia PARADA, una fondazione dedicata al recupero dei bambini e dei ragazzi che vivono nei sotterranei della città. Lui ha avuto una vita terribile, gli hanno ucciso la sorella, la madre è morta in circostanze ancora misteriose, il padre non lo ha mai voluto riconoscere, ha avuto problemi con la moglie per l’affido dei figli. Ma nonostante questa sua vita diciamo tribolata, ho avuto modo di conoscere una persona che realizzava spettacoli fantastici, pieni di poesia e di magia, che strappavano allegria a tutti. Ecco, quello per me è il vero artista, colui che va oltre la sofferenza e sa creare un mondo che dona al pubblico momenti indimenticabili”.

Ci lasciamo quindi con l’immagine del clown, che ha ispirato artisti come Charlie Chaplin e Federico Fellini, è un punto di riferimento anche per Camillo Pace. Dalla solitudine del basso all’armonia delle canzoni.

“Bene, ci salutiamo così. Un saluto a tutti, a presto e buon anno!”

E’ il momento di andar via, fuori il cielo plumbeo non fa presagire nulla di buono. All’angolo della strada un pupazzo di neve ormai ghiacciata sorride con lo sguardo un po’ sbilenco. Una carota e due pomodori, nella più classica delle raffigurazioni. E una lacrima che scende sul sorriso a buccia d’arancia.
Ci vuole coraggio per essere un clown.

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